«Sto incominciando a parlare un linguaggio che è capito da pochi. Mi fa sentire sempre più solo. Dopo tutto, non sto più da nessuna parte. I matematici possono essere amichevoli e interessati e darmi una paterna pacca sulla spalla, ma alla fine per loro sono solo un dilettante. Gli artisti in genere si irritano, ed io sono a volte assalito da un immenso senso di inferiorità.»
Così affermava Escher commentando l’evoluzione del suo lavoro verso una dimensione, dapprima inconsciamente e poi volutamente, matematica. Sono le parole di uno sperimentatore, che ci stupiscono se consideriamo la meraviglia che ancora oggi, avvezzi alle nuove frontiere della grafica digitale, proviamo di fronte alla complessità e alla forza immaginativa di certe incisioni dell’artista olandese. Escher è stato, a partire dalla sua produzione posteriore al 1937, un unicum nella storia dell’arte. Pochi hanno saputo come lui rielaborare in maniera così personale la memoria storica dei grandi maestri del passato, fiamminghi (pensiamo alla lunga tradizione fiamminga relativa agli specchi convessi) e italiani (come non citare le paradossali Carceri di Piranesi), e i propri ricordi personali. Escher infatti partì dalla raffigurazione meticolosa di luoghi reali visitati e amati, soprattutto i borghi arroccati dell’Italia centro-meridionale e le architetture moresche dell’Alhambra, per rielaborare e ricreare mondi impossibili e paradossali.
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